L’Olocausto? Un’esperienza religiosa.

Opinioni

Incontro con Aharon Appelfeld.

Israeliano, 77 anni, nato a Czernowitz, Bucovina nel 1932, Aharon Appelfeld, uno dei più toccanti narratori della prima generazione degli scrittori della Shoah, si è fermato in Italia qualche giorno per presentare il suo nuovo libro: Paesaggio con bambina, traduzione di Elena Loewenthal (Guanda), un romanzo dal retrogusto esplicitamente autobiografico. Questa è la storia di Tsili Kraus, ultimogenita di una famiglia di bottegai ebrei dell’est Europa che, sfugge allo sterminio, vagando per i boschi; l’innocenza della fanciulla sarà l’unica arma a suo favore per difendersi in un mondo cinico e violento. La notte, la solitudine, il candore e l’innocenza, sono questi i temi a cui Appelfeld ricorre più di frequente nei suoi racconti. Asciutta e penetrante, la sua scrittura è il punto d’arrivo di un lungo e faticoso percorso alla ricerca di una lingua con la quale ricominciare a vivere.


La sua esperienza di vita può essere definita come una sorta di viaggio alla riscoperta delle proprie radici?

La mia personalità è come l’incrocio di tre identità diverse, spesso conflittuali tra loro. Provengo da una famiglia ebraica, che pur senza rinnegare la propria origine, si sentiva del tutto assimilata all’Occidente. Poi c’è stata la guerra, che ci ha separato per sempre: mia madre è stata uccisa, mio padre rinchiuso in un campo di concentramento; io invece sono riuscito a scappare, e ho vissuto per tre anni vagando nei boschi…


La sua scrittura è spesso molto coincisa ed essenziale, niente aggettivi…

Un aggettivo è qualcosa di restrittivo, limitato ed è per questo che cerco di evitarlo. È meglio riportare fatti concreti. Gli aggettivi sono sempre una sorta di manipolazione della realtà. Non si dovrebbe dire, per esempio: “Lei è carina”, bensì descrivere le sue fattezze, i suoi movimenti e mettere in evidenza ciò che la rende simpatica e graziosa.


A differenza di altri scrittori della Shoah, lei non ama parlare della deportazione e si sofferma invece nel ricordo della sua infanzia e nel dramma della fuga..

Altri scrittori, quando parlano dell’Olocausto, scrivono delle cronache o delle memorie, ma non una narrazione. Ci sono delle parti di ciascuno di noi , così intime da non poter essere manipolate dall’arte. Un esempio: quando un uomo si trova in un lagher per tre o quattro settimane perde tutte le facoltà intrinseche di un essere umano, a causa della fame. La letteratura non può soffermarsi su quei momenti. Esiste l’orrore, l’orrore non è descrivibile. E quindi la mia esperienza nel ghetto o il mio nascondermi nei boschi è un tipo di vissuto, che mi sento di poter restituire con l’inchiostro.
Gli orrori, gli orrori veri, quelli non possono essere descritti, poiché diventerebbero solo un resoconto, senza cioè poter essere sublimati nell’arte..


Quali difficoltà ha incontrato a tradurre in parole una memoria ritrovata faticosamente negli anni?

Naturalmente è stato doloroso. L’operazione stessa della scrittura è impegnativa. Rendere in parole il pensiero e le sensazioni è sicuramente qualcosa di difficile; naturalmente il punto è il risultato che si ottiene.


Lei ha tre figli, in che modo la sua esperienza di vita ha influenzato la sua famiglia attuale?

Li ho educati. Loro ormai sono cresciuti e sono grandi. Sanno bene ciò che mi è successo durante la guerra e sono fedeli lettori dei miei libri. Sono un padre normale, penso ed amo i miei figli.

Il suo sguardo è rivolto verso il passato. E il presente?

È molto complessa la realtà in cui viviamo; io sono uno scrittore e mi occupo di scavare l’animo dei miei personaggi. Si dicono tante cose false circa l’attualità ed io sono soddisfatto e felice di avere a che fare unicamente con gli individui, perché è solo attraverso la loro descrizione, che io do il meglio di me stesso. Riguardo una mia opinione su ciò che succede nel mondo, non ritengo che essa sia necessaria: ci sono già tanti giornalisti. Non nutro, inoltre, delle fantasie nei confronti del futuro; l’unica cosa di cui mi preoccupo è che la settimana prossima sia una buona settimana.


Uno dei suoi scrittori preferiti è Shay Agnon. Qual è il suo rapporto con la lingua ebraica?

La questione è sempre stata quella di come trovare le parole giuste per una tragedia. Non si può certo parlare di Olocausto in termini eleganti o graziosi, ciò sarebbe assolutamente fuori luogo. La lingua deve essere funzionale a qualcosa. L’esperienza dell’Olocausto possiamo definirla una sorta di esperienza religiosa, perché si ha a che fare con la vita e con la morte. Oggi l’ebraico è per me è una lingua madre, la lingua madre adottata.


In che modo la Torah ha accompagnato la sua vita?

Io sono una persona religiosa, pur non osservando l’Halachà nella sua interezza; ma sono un ebreo credente. Non seguo alla lettera le regole, ma tengo la Torah sul comodino.
Dovresti guardare il mio viso e capire che la Torah si riflette sul mio volto.
Arrivo da una famiglia profondamente unita, ma assimilata. Mia madre non voleva che parlassi l’Yiddish e mi tenne lontano dalla spiritualità religiosa dei miei nonni. Sono diventato veramente ebreo solo in Israele.